Tendine d’Achille: la dolorosissima rottura o la fastidiosa tendinopatia richiedono diagnosi e trattamenti adeguati: «E’ importante riconoscere subito il problema», avverte il dottor Luigi Milano.
Altro che tallone! In molti casi può essere il tendine d’Achille il punto debole di un atleta, straziato all’improvviso da un dolore molto acuto («Come essere colpiti da una bastonata o da una pietra») senza aver mai ricevuto alcun tipo di segnale che ne lasciasse presagire la rottura. «Nel 99 per cento dei casi, quel tipo di dolore annuncia proprio la rottura del tendine d’Achille ed è bene ricorrere subito a un ortopedico esperto che eseguirà la diagnosi individuando il cosiddetto “colpo d’ascia”, quello che segna un intervallo nella continuità del tendine», spiega il dottor Luigi Milano, responsabile della Chirurgia del piede e della caviglia di Humanitas Cellini.
Purtroppo, in circa il 20 per cento dei casi, la diagnosi di rottura del tendine d’Achille non è così immediata: «Accade quando non ci si rende conto della gravità dell’infortunio e lo si confonde con qualcos’altro, tipo uno strappo muscolare – prosegue il dottor Milano -. Intervenire in ritardo allunga i tempi di recupero e registra risultati meno brillanti». Ecco perché è importante intervenire nei primi 3-4 giorni successivi all’infortunio.
Meno dolorosa della rottura ma altrettanto fastidiosa è l’infiammazione che può interessare il tendine d’Achille: la cosiddetta tendinopatia. Può essere inserzionale («Quando interessa la zona del tendine d’Achille che si inserisce sul calcagno») o non inserzionale («Quando riguarda il corpo tendineo»), due modalità differenti che richiedono trattamenti specifici. «La tendinopatia inserzionale è più frequente negli sportivi di 30-40 anni o nelle persone non sportive che hanno superato i 60 anni di età – spiega il dottor Milano -, quella non inserzionale è invece quasi sempre legata all’attività sportiva: stress ripetuti, overuse, calzature sbagliate e terreni d’allenamento non adatti rappresentano le cause più frequenti di una patologia che interessa in modo particolare chi pratica sport di corsa e salto come atletica leggera, basket, volley e calcio».
Come si cura la tendinopatia? In una prima fase con un trattamento conservativo che il più delle volte, nel giro di sei mesi, registra miglioramenti importanti o addirittura risolutivi. «Oltre a ridurre e modificare la propria attività sportiva – rivela ancora il dottor Milano -, sono fondamentali gli esercizi di stretching e l’adozione di calzature molto ammortizzanti anche al di fuori dell’ambito sportivo». Forniscono inoltre il loro contributo anche il ghiaccio, gli antinfiammatori e le onde d’urto, efficaci soprattutto con la tendinopatia inserzionale che presenta calcificazioni: «Stimolano i tessuti e li rivitalizzano favorendo la guarigione dall’infiammazione». Efficace con la tendinopatia non inserzionale si rivela invece il gel piastrinico: «Un paio di iniezioni garantiscono un miglioramento, mentre vanno del tutto evitate le infiltrazioni di cortisone: possono alleviare i sintomi ma aumentano il rischio di rottura del tendine».
Per risolvere la tendinopatia può però essere necessario il trattamento chirurgico. «Nel caso di quella inserzionale – spiega il dottor Milano – l’operazione asporta la calcificazione, riposiziona il tendine e lo fissa sull’osso». Quello sul tendine d’Achille è un intervento che richiede tempi di recupero importanti: tre settimane senza carico e altre tre con carico leggero, dopodiché si ricomincia a camminare e si avvia un percorso di rieducazione funzionale: «Occorrono molta pazienza e un lavoro specifico sulla muscolatura, per tornare all’attività sportiva possono essere necessari anche sei mesi». Per la tendinopatia non inserzionale cambiano le modalità di intervento e i tempi di recupero, decisamente più celeri: «Sia che si tratti dell’operazione tradizionale che prevede l’asportazione del peritenonio (la membrana che riveste il tendine) e incisioni longitudinali sul tendine, sia che si tratti di quella meno invasiva che “scolla” il tendine dalla fascia profonda attraverso un filo inserito in quattro piccoli fori, non è richiesta immobilizzazione del paziente», assicura il dottor Milano. Tanto che, nel secondo caso, la persona operata potrà addirittura tornare alla normale attività dopo un paio di settimane.