L’artrosi è una patologia subdola, progressivamente ingravescente e invalidante, che colpisce un terzo della popolazione generale, ed è una delle cause più importanti di disabilità, dolore cronico e alterazione della qualità di vita. La diagnosi deve essere precoce e il trattamento adeguato alla stadiazione dell’artrosi e allo stile di vita del paziente. La protesi d’anca, nel 2007, è stata definita dalla prestigiosa rivista Lancet come l’intervento del secolo per i risultati in termini di miglioramento della qualità di vita del paziente. In quasi vent’anni, però, alcune cose sono cambiate. “Nuove frontiere nella protesi di anca” è il tema trattato durante l’incontro di Martedì Salute con l’équipe di Chirurgia dell’anca di Humanitas Cellni, il dottor Alberto Nicodemo, responsabile, il dottor Carlo Alberto Buratti, il dottor Claudio Cuocolo, il dottor Antonio Russo.
Anca: cos’è la coxartrosi e quali sono le cause?
L’anca è un’articolazione molto stabile, costituita dall’osso della testa femorale che si inserisce all’interno della cavità nel bacino chiamata acetabolo, che permette un ampio grado di movimento e sopporta alte sollecitazioni. Questo determina la presenza di attrito nel punto di scorrimento della testa del femore all’interno della cavità acetabolare, contribuendo a generare l’usura della cartilagine e l’artrosi dell’anca, chiamata coxartrosi. L’artrosi è una patologia degenerativa caratterizzata da un deterioramento progressivo della cartilagine che colpisce frequentemente persone sopra i sessant’anni, ma può comparire anche nei giovani.
La coxartrosi può essere di origine primitiva, cioè legata a un processo di invecchiamento progressivo della cartilagine, specie in presenza di predisposizione genetica, oppure può essere secondaria. La coxartrosi secondaria può svilupparsi a seguito di alcuni fattori:
- trauma, come ad esempio, una frattura dell’acetabolo;
- alterazioni anatomiche presenti alla nascita o che si manifestano nelle prime fasi dello sviluppo della persona, come la displasia congenita dell’anca in cui la testa del femore non lavora perfettamente al centro dell’acetabolo generando movimenti anomali che nel tempo conducono a usura della cartilagine;
- conflitto femoro acetabolare, in cui tra testa e collo femorale avviene un “contatto” durante i movimenti di flessione dell’anca, con conseguente usura progressiva della cartilagine;
- necrosi della testa del femore, ovvero l’interruzione della circolazione di sangue alla testa del femore, che può portare alla morte del tessuto osseo;
- patologie del sistema immunitario come l’artrite reumatoide, l’artrite psoriasica e altre, che innescano meccanismi di infiammazione cronica dell’articolazione che, nel tempo, possono determinare usura articolare;
- obesità, sia per il sovraccarico dell’articolazione, sia per i processi infiammatori associati all’obesità.
L’artrosi dell’anca compare con sintomi diversi: dolore all’inguine, alla schiena, nella parte interna del ginocchio e, in genere, peggiora con il movimento, provoca rigidità articolare soprattutto al mattino e dopo periodi prolungati di inattività. Nel tempo, la coxartrosi porta progressivamente a una limitazione delle normali azioni quotidiane, fino ad arrivare alla necessità di utilizzare degli ausili, come le stampelle, per limitare la zoppia e ridurre il dolore.
Nei pazienti giovani al di sotto dei 40-45 anni che hanno una forma iniziale di artrosi può essere indicato un trattamento chirurgico conservativo che ha lo scopo di modificare un’anatomia che predispone il paziente allo sviluppo di artrosi. Gli interventi possono essere eseguiti per via artroscopica oppure con osteotomie, sebbene l’unica soluzione sia la chirurgia protesica che prevede la sostituzione dell’articolazione con un dispositivo artificiale in grado di ripristinare il movimento, togliere il dolore e ridare una funzione che non c’è più. Le protesi d’anca oggi utilizzate, vengono prodotte con tecnologie molto avanzate, e impiantate con interventi sicuri e tecniche mininvasive, in grado di ripristinare la qualità della vita migliorandola proprio grazie alla riduzione del dolore e al miglioramento del movimento.
I trattamenti alternativi alla chirurgia protesica
Non tutte le artrosi vanno operate per questo è importante studiare la patologia, le abitudini di vita, l’attività sportiva e stabilire il trattamento. La diagnosi inizia sempre dall’esame clinico durante la visita specialistica e le radiografie tradizionali, che permettono la stadiazione della malattia. Una volta fatta la stadiazione, quindi, si può impostare la terapia corretta: nell’artrosi lieve, la terapia è conservativa, con farmaci antinfiammatori e analgesici che permettono di gestire il dolore, ma non di guarire l’artrosi. Si tratta di terapie che devono essere supportate dalla fisioterapia, per potenziare i muscoli intorno all’anca e garantire una maggiore stabilità, talvolta associate a terapie infiltrative, nei casi di coxartrosi di grado lieve e moderato, oppure in pazienti con artrosi grave ma non idonei alla chirurgia protesica. La terapia infiltrativa deve essere eseguita sempre sotto guida ecografica o radiografica, e utilizza cortisonici, acido ialuronico, PRP (concentrato piastrinico ricco di mediatori antinfiammatori ottenuto dal sangue del paziente che viene iniettato nell’articolazione).
Quando tutti i trattamenti conservativi falliscono, la chirurgia protesica dell’anca per la coxartrosi è l’unica soluzione. Tuttavia, come evidenzia un recentissimo studio del New England Journal of Medicine, quando il paziente ha l’indicazione alla chirurgia protesica, non ha senso effettuare terapie fisioterapiche per lungo tempo perché possono stressare l’articolazione. Pertanto, come raccomandano le evidenze scientifiche, è meglio ricorrere direttamente alla protesi totale dell’anca.
Trattamenti per la coxartrosi: cos’è la protesi totale d’anca?
Una protesi è fatta da quattro elementi: stelo femorale, la parte che va inserita all’interno del femore, con la sua testina, in genere, in ceramica, una coppa acetabolare con un inserto, in genere, in polietilene. Durante l’intervento viene tagliata la testa del femore, viene preparato l’acetabolo al cui interno viene inserita la coppa di titanio col suo inserto in polietilene, al di sopra del quale si mette la pallina di ceramica. Una volta impiantata, la protesi deve risultare stabile, non si deve lussare, cioè non deve uscire dalla sua sede, e deve restituire al paziente una buona articolarità dell’anca, rispettare la lunghezza degli arti.
Esistono diversi tipi di protesi e di intervento, che vengono scelti dal chirurgo sulla base delle caratteristiche del paziente e della patologia, oltre alle esigenze sportive e allo stile di vita della persona. Le tecniche chirurgiche si sono evolute nel tempo, le cicatrici sono diventate molto più piccole, le protesi durano più a lungo, i tempi dell’intervento si sono ridotti, e la chirurgia può essere effettuata, quando possibile, con accessi mini invasivi. Per accesso mini invasivo si intende una chirurgia più rispettosa dei tessuti muscolari e tendinei, che permette di posizionare la protesi passando attraverso gli spazi muscolari, senza tagliare i tendini. Tuttavia, non sempre è possibile eseguire una chirurgia protesica mininvasiva, come ad esempio in pazienti obesi o troppo muscolosi. Inoltre, l’uso di software permette di progettare gli interventi prima di entrare in sala operatoria e di studiare l’anca del paziente grazie a modelli 3D stampati da immagini TC dell’articolazione, specie in casi molto complessi, come gravi displasie, reimpianti di protesi. Il modello 3D permette di eseguire con grande precisione l’intervento, preservando vasi e nervi intorno all’articolazione. Infine, le suture antibatteriche hanno ridotto le infezioni, i tempi più veloci di intervento hanno diminuito il sanguinamento intraoperatorio e contribuito a eliminare il drenaggio e il catetere vescicale, riducendo anche il rischio di infezioni urinarie postoperatorie; le medicazioni impermeabili hanno migliorato la qualità di vita del paziente dopo l’intervento, permettendogli di farsi la doccia, oltre a poter far mangiare e bere il paziente praticamente da subito dopo l’intervento, e camminare a distanza di qualche ora dall’impianto della protesi, anche nei pazienti di età avanzata. Tutto questo è possibile anche grazie a un’innovativa gestione perioperatoria, che permette di valutare con attenzione tutti i fattori di rischio del paziente (obesità, fumo di sigaretta, diabete, ad esempio), che possono influenzare il risultato dell’intervento.
L’importanza delle evidenze scientifiche nella protesi d’anca
La medicina basata sull’evidenza comprende l’utilizzo delle migliori prove cliniche attualmente a disposizione per la cura del paziente, anche in merito alla protesi d’anca. Le evidenze scientifiche basate sui dati dei registri protesici internazionali, infatti, raccolgono milioni di casi e permettono al medico di avere informazioni su quanto dura una protesi, qual è la migliore per popolazione di pazienti, quali sono le complicazioni e i fallimenti degli impianti e a cosa sono dovuti, quali materiali sono più performanti nel tempo, e quindi guidano la scelta del chirurgo sul tipo di impianto. Quando viene scelta una protesi da impiantare a un paziente, quindi, vengono prese decisioni basate sulle evidenze scientifiche.
I materiali con cui sono costruite le protesi hanno avuto uno sviluppo enorme nel corso degli anni: i materiali attualmente in uso derivano dalla ricerca bioingegneristica e anch’essi documentano la loro validità attraverso gli studi biomeccanici. Tuttavia, la tecnica chirurgica è fondamentale perché la protesi funziona bene se viene messa bene. Infatti, il fallimento della protesi, che può avvenire perché è mancata l’integrazione con l’osso oppure c’è un’usura o la rottura dei componenti della protesi, oggi evento rarissimo, è tuttavia una complicazione che si può prevenire utilizzando materiali sicuri e sperimentati, ed eseguendo la tecnica chirurgica in modo preciso. Serve, inoltre una sorveglianza clinica nel tempo, preferibilmente presso il chirurgo operatore o l’equipe che ha svolto l’intervento perché conoscono la tecnica che è stata adottata, il tipo di protesi, il decorso del paziente e sapranno gestire eventuali problematiche e, in caso, un intervento di reimpianto. E qui ancora di più, l’esperienza del chirurgo è determinante: perché se la protesi di primo impianto può essere considerata un intervento di routine, la revisione di una protesi, è un intervento che richiede molta esperienza e capacità. Il successo dell’intervento, però, è sempre il risultato della collaborazione tra un buon chirurgo e un buon paziente.
Cosa succede dopo l’intervento di protesi?
L’ottimizzazione delle procedure chirurgiche e l’utilizzo di metodiche per il controllo del dolore con protocolli anestesiologici ottimizzati per questo tipo di chirurgia ha permesso un’efficace e precoce riabilitazione, e una rapida degenza (in Humanitas Cellini la media di degenza è di 3-4 giorni), durante la quale vengono eseguiti tutti gli esami ematici e radiografici di controllo, e inizia la riabilitazione, prima su un deambulatore, poi con stampelle. La dimissione infatti avviene se il paziente è in grado di deambulare autonomamente con le stampelle, di salire e scendere le scale. La dimissione, nella stragrande maggioranza dei pazienti, avviene a casa in maniera del tutto sicura, come evidenzia la vasta letteratura scientifica su questo argomento, dimostrando che non determina un aumentato rischio di complicanze e anzi agevola un più rapido recupero alle proprie abitudini di vita.
A casa è raccomandato togliere tappeti e gli ostacoli che possono aumentare il rischio di caduta, continuare la riabilitazione, assumere i farmaci per prevenire il dolore post operatorio, effettuare la profilassi antitrombo con iniezioni sottocutanee di eparina e l’utilizzo di calze antitrombo per 25-30 giorni. L’utilizzo delle stampelle è obbligatorio, ed è buona norma usarle per almeno 25-30 giorni in modo da scaricare la protesi dalle sollecitazioni meccaniche e favorire l’integrazione della protesi nell’osso. Inoltre, la fisioterapia, con gli esercizi di mobilizzazione dell’articolazione dell’anca, rinforzo dei muscoli stabilizzatori, esercizi di mobilizzazione delle strutture articolari che stanno intorno all’articolazione dell’anca, quindi il ginocchio e la schiena, movimenti di mobilizzazione delle caviglie.
Infine i controlli postoperatori a 10-15 giorni dall’intervento di protesi per la rimozione dei punti di sutura, a due mesi per il primo controllo clinico e radiografico per escludere la presenza di immobilizzazioni o problemi relativi all’impianto. In genere, questo è il momento in cui il paziente può tornare alla propria vita. In merito al ritorno allo sport, secondo le evidenze scientifiche, può essere raccomandato dopo tre mesi dall’impianto della protesi, sulla base però delle capacità motorie del paziente.